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"Confessioni di un bullo"

La redazione

Aggiornamento: 14 feb

Due sono stati i premi assegnati nell'ultimo concorso del "Tema del mese" promosso dalla Redazione di Newstudents: la giuria, infatti, ha ritenuto di valorizzare due lavori interessanti, che differivano tra loro solo di un piccolo scarto di punteggio.

Condividiamo con piacere i testi delle vincitrici.


1° CLASSIFICATO

MI CHIAMANO BULLO…

 

Mi chiamano bullo. È questo il nome che mi hanno cucito addosso; come se fosse l’unica cosa che mi definisce. È facile, no? Guardano quello che faccio e decidono chi sono. È più semplice così. Etichettare, giudicare, condannare. Ma nessuno si ferma a guardarmi davvero. Nessuno si ferma a chiedersi perché. Nessuno vuole vedere oltre.

Eppure, dietro ogni insulto che lancio, ogni risata che sembra così sicura, c’è qualcosa. C’è una voce che urla dentro di me. Ogni volta che faccio ridere gli altri, è come se dicessi al mondo: “guardami, ascoltami, esisto anche io!”; ma non serve a nulla. Loro vedono solo i miei pugni, sentono solo le mie parole taglienti. Non sentono mai quello che c’è dentro.

E sapete cosa c’è dentro? Paura. Una paura che non se ne va mai, che non smette di stringermi il petto. Da piccolo ero io, quello preso in giro, quello che nessuno ascoltava. Le risate, le prese in giro… te le porti dietro ovunque, come un’ombra. Tornano a casa con te, ti seguono sotto le coperte, sussurrano nella tua testa coprendo i tuoi pensieri. Ogni parola che dicono ti resta incollata addosso, e più cerchi di scrollartela via, più sembra diventare parte di te. 

Così ho deciso che le cose dovevano cambiare. Ho costruito una corazza, pezzo dopo pezzo. Ogni insulto che lanciavo, ogni risata che provocavo, diventava una placca di ferro. E quando ho cominciato a vedere la paura negli occhi degli altri, per un attimo, per un istante, ho sentito che il “potere” era mio. Che per una volta non ero io quello piccolo, quello fragile. Per un momento mi sentivo quasi come se fossi al sicuro. E per quel momento, sembrava bastare.

Ma sapete cosa? Quel momento passa in fretta. E quando rimango da solo, quando torno a casa e non ride più nessuno, mi ritrovo davanti allo specchio; e nello specchio c’è ancora quel bambino, quello spaventato, quello pieno di lividi che non si vedono. È ancora lì, che mi guarda, come se volesse chiedermi perché faccio quello che faccio. E io non so cosa rispondere.

Vorrei smettere, a volte. Vorrei solo che qualcuno mi vedesse davvero, senza paura, senza rabbia, senza questa maschera che ho incollato alla pelle. Ma se lascio cadere tutto, cosa rimane? Ho paura della risposta. Ho paura che senza tutto questo non rimanga niente; o forse, solo quel ragazzino che non ho mai avuto il coraggio di salvare…

Mi chiamano bullo. Ma a volte penso che sono solo un bambino che non è mai riuscito a smettere di piangere.

Sara Pagotto, 3CT



2° CLASSIFICATO

BULLA CONTRO ME STESSA

 

Sbatto la portiera dell’auto, salutando mia mamma. Lei è già stressata e mentre fa un tiro con la sigaretta, mi urla addosso. Nulla di nuovo. Non mi chiede come sto. Tanto non le interessa.

Quando arrivo in classe Irene è già là, a ridere e scherzare insieme ai suoi amici. Lei non si veste alla moda, lei non ha bisogno di truccarsi: lei si piace così com’è. Tutti le stanno attorno. E io la odio, la odio, la odio per questo. Perché lei non ha bisogno di indossare una maschera per piacere alle persone.

Mentre si avvicina alla cassaforte per posare il telefono, le sussurro qualche insulto, sui suoi vestiti, sulla sua faccia, e già che ci sono anche qualche aggettivo colorito. So che mi ha sentito dall’espressione atterrita che si lascia sfuggire. Torna al suo banco e se ne sta lì mogia: è quello che volevo, non è giusto che solo io debba sentirmi male.

La schernisco ogni giorno, a volte anche in più circostanze. E lei la mattina dopo torna sempre gioiosa, mai un giorno che non la veda sorridere lì con suoi amici. Quanto mi irrita tutto ciò!

È da tre giorni che non si presenta a lezione. Strano.

Ora a scuola tutti mi guardano con disprezzo, anche le mie amiche, che non mi rivolgono più la parola. Mi avvicina la professoressa: Irene ha avuto un attacco di panico, ha preso una pillola calmante di troppo ed è finita in coma per diverse ore... Non ci posso credere! Per fortuna, o forse per miracolo, si è svegliata... Ma che sia colpa mia? In effetti ultimamente ho percepito paura ed angoscia nei suoi occhi, nel vedermi arrivare. Mi scende una lacrima. Le mie parole l’hanno davvero ferita, eppure sono solo parole... Ho esagerato, ho superato ogni limite. È tutta colpa mia. Scoppio in un pianto disperato. Mi sento un mostro. Ho ferito profondamente e ingiustamente una ragazza come me.

Non riesco a credere a quello che sono diventata. Mi guardo allo specchio e non mi riconosco più. Pensavo che facendo del male a qualcuno sarei diventata più forte, più importante, persino ammirata dagli altri. Pensavo che dimostrando di essere una “dura” avrebbero capito che anche io valgo. Ma mi sbagliavo. Cosa ho ottenuto? Nulla, ho pure perso le mie amiche.

Devo cambiare. La vera forza sta nell'essere gentili, nell'aiutare gli altri, nel migliorare costantemente, per arrivare ad essere una persona bella dentro. Ora l’ho capito. È ora di voltare pagina. È ora di diventare la persona che ho sempre voluto essere.

Sara Valentini, 3CT

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