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La redazione

C'erano una volta... il corsivo e la penna

Aggiornamento: 30 apr

"Vi siete mai chiesti perché oggi non s’insegna più ai ragazzi a scrivere in corsivo?

E no, non è un caso che si tenda ad usarlo sempre meno. Scrivere in corsivo vuol dire [...] non staccare la mano dal foglio. Uno sforzo che stimola il pensiero, che ti permette di associare le idee, di legarle e metterle in relazione. [...] Naturale che il corsivo non abbia più posto nel mondo di oggi, un mondo che fa di tutto per rallentare lo sviluppo del pensiero, per azzopparlo."


Questo pensiero della scrittrice Guendalina Middei, nota sui social con lo pseudonimo di Professor X, mi fa riflettere su alcune discutibili "semplificazioni" della scuola di oggi, che sembrano assecondare le esigenze di bambini e ragazzi, ma che in realtà finiscono per rallentarne lo sviluppo di alcune abilità - un po' come le scarpe col velcro che, a forza di strappa e attacca, allontanano sempre più l'età in cui si impara a fare un'asola.

Il corsivo, è vero, è sempre meno praticato dagli alunni di oggi, anche se sono grandi e non hanno alcun problema di disgrafia. Sempre più studenti mi chiedono se possono scrivere in stampatello e, quando chiedo perché, si giustificano dicendo che "fanno meno fatica", evidentemente confortati dal fatto che negli ordini di scuola precedenti nessuno si è mai opposto.

Non si tratta dell'unico "cedimento" pedagogico sulle abilità di scrittura, purtroppo. Un altro, sempre più diffuso, è il concedere l'uso della matita al posto della penna, anche quando ci sarebbero tutte le abilità per scrivere correntemente in penna.


Ricordo che la mia maestra - mitica maestra "unica" degli anni '70 - ci ha lasciato scrivere in matita in prima elementare, fintantoché non abbiamo preso dimestichezza con, appunto, il "corsivo", che veniva insegnato come il modo più normale di scrivere (tra parentesi, non è affatto più faticoso dello stampato, anzi, una volta acquisito permette di scrivere con maggiore scioltezza e velocità).

Non appena ne siamo stati in grado, la maestra ci ha tolto la matita e ci ha fatto usare la penna: avevamo 6 anni e mezzo, alcuni 7. Nessuno di noi è morto, nessuno è finito dallo psicologo e, se qualcuno aveva difficoltà, lo abbiamo aspettato. Si pasticciava, è vero, ma ci si assumeva una responsabilità. Sapere di non poter cancellare ci obbligava a stare attenti, a pensare prima di scrivere, a progettare un minimo il pensiero, a non "buttare là" le parole.


Oggi ci sono ragazzi che in prima superiore scrivono ancora in matita. Non solo la brutta, ma anche la bella. Fanno i compiti per casa e te li consegnano in matita. In matita fanno le ricerche e gli esercizi di tutte le materie. La penna li spaventa, la matita li rassicura.

La prima cosa che faccio è togliergliela. Non solo perché un testo in matita non ha alcun valore legale, ma perché vanno educati alla responsabilità, vanno incoraggiati ad assumersi il rischio di fare errori.

All'inizio è un trauma. "Ma come, prof? Io non sono capace... come faccio se sbaglio...?". Non accettano di pasticciare il foglio, non vogliono dover fare una brutta e una bella, perché la brutta porta via tempo ed evidenzia la loro imperfezione.

Poi si abituano. Imparano che si scrive prima col cervello, poi con la mano. Riflettono. Ci pensano bene. Se sbagliano, accettano di dover riscrivere, di dover dedicare tempo per migliorare; diventano meno impulsivi.

Imparano che nella vita non c'è cosa senza sbavature e che è umano dover rifare. Col tempo, si sforzano di fare bene da subito, rendendosi conto che non tutto è cancellabile e reversibile, come la matita - o come il videogioco che dopo il "game over" si può sempre ricominciare - e che a volte non c'è una seconda possibilità.

Alcune cose non tornano indietro e non si possono più cambiare, ma si può riflettere prima di farle. Educare a pensare prima di agire è un'attitudine pedagogica ormai fuori moda, ma non superflua. Si tratta di una consapevolezza che ogni ragazzo dovrebbe acquisire fin dall'infanzia e che gli adulti hanno ancora il dovere di insegnare.


Matteo Di Pietro, lo youtuber ventenne che il 14 giugno del 2023 ha travolto una smart con il suo SUV lanciato ad altissima velocità, uccidendo Manuel, un bambino di 5 anni, ha atteso in lacrime la sentenza che lo ha condannato a 4 anni e 4 mesi per omicidio stradale aggravato. Il giovane ha dichiarato che dedicherà questo tempo a progetti sulla sicurezza stradale, si dice pentito per quanto ha fatto e profondamente addolorato.

Se il giorno che ha lanciato la sua auto alla massima velocità (per poterne fare un video da postare su Youtube) si fosse fermato un attimo a riflettere e avesse visto in prospettiva la propria corsa come una linea tracciata a penna anziché a matita, forse oggi il piccolo Manuel sarebbe ancora tra noi.


Maria Serena

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